Corriere dello Sport (G. D’Ubaldo) – Vincent Candela ha 49 anni, da quando ne aveva 24 vive a Roma, con brevi esperienze al termine delle carriera di calciatore tra Bolton, Udinese, Siena e Messina. “Più della metà della mia vita l’ho trascorsa a Roma, anche se non rinnego le mie origini”. Per capire chi è Vincenzo, come lo chiamano gli amici romani, bisognerebbe riascoltare il messaggio inviato al termine dell’intervista: “Mi piacerebbe evidenziare quello che è molto significativo per me. È cambiato il mio ruolo nella società, ma l’essenza è rimasta sempre la stessa: Forza Roma. Questo è quello che mi sento di dire e che vorrei emergesse dall’intervista“. Candela è appena tornato dalla tournée con la Roma in Giappone. Invitato dalla società come legend/testimonial.
Come ti devo chiamare?
Lavoro con la Roma da qualche anno, ho partecipato a iniziative con Roma Cares, sono andato a parlare nei teatri ai tifosi, nelle scuole e nelle università agli studenti. Abbiamo portato la Coppa e ho raccontato il valore del derby. Un feeling consolidato con la Roma, la tournée è servita a sviluppare il rapporto con il Giappone. Preferisco essere considerato un testimonial. Sono poche le leggende nel mondo e io non mi sento tale.
Un rapporto che si è consolidato negli anni.
Penso di aver seminato bene. Ho cominciato questo ruolo con la nuova dirigenza, prima lavoravo con la Roma Tv, poi l’attuale società ha chiuso il canale e quando è finito il contratto per un anno non ho lavorato, non sono voluto andare da altre parti, anche se avevo proposte. Ho preferito aspettare, adesso posso dare la mia professionalità e la mia romanità in un altro modo
Nel 1999 dovevi lasciare la Roma per andare all’Inter. In ritiro a Kapfenberg ti facevi trovare con il telefonino a tavola per arrivare alla rottura, ma Capello non ti lasciò andare via.
Ho grande rispetto per Zeman, mi ha dato tanto per la parte fisica e la disponibilità al sacrificio, ma litigavamo spesso, eravamo giovani. Dopo due anni avevo deciso di andare via, Zeman aveva fatto altre scelte. Poi è arrivato Capello, nessuno se lo aspettava. In un mese è cambiato tutto. In quel periodo per l’unica volta il rapporto con i tifosi è stato difficile. Avevo già festeggiato la mia partenza, perché io se saluto lo faccio con lo champagne e i fuochi d’artificio, non scappo di notte. La partenza sembrava sicura, sapevo che Zeman non mi voleva e più non si parlava di Capello. Ma poi la Roma mi diede la possibilità di stare dentro questa famiglia. In due settimane recuperai il rapporto con i tifosi e con Capello. Lui è ancora il mio allenatore preferito, non perché un sergente di ferro, ma perché mi ha dato molta fiducia e con lui ho reso al 300 per cento.
In quel periodo sei stato campione del mondo, campione d’Italia, uno dei più forti terzini sinistri del mondo.
Non mi sentivo tale, anche se sono stato il terzino dell’anno in serie A, quando era uno dei migliori campionati del mondo. Non ho mai sentito il peso della responsabilità, sapevo che ogni anno dovevo migliorare, per confermarmi e per raggiungere altri obiettivi. Per me il migliore nel mio ruolo è stato Maldini, anche se tecnicamente ero più forte io. Diciamo che è stato un onore e un orgoglio far parte dei più bravi al mondo.
Perinetti, il direttore sportivo di allora, mi raccontò che rovesciasti le scrivanie nella sede del Guingamp per lasciarti andare alla Roma.
La trattativa si era arenata, vivevo una situazione strana, litigavo con l’allenatore e i dirigenti. Con tutto il rispetto per Guingamp non riuscivo a capire perché tarpare le ali a un ragazzo che aveva una grande occasione. Non lo trovavo giusto. Il Guingamp per la prima volta nella sua storia partecipò all’Europa League, io sono stato il primo giocatore del club ad andare in Nazionale. Anche io mi arrabbio in certe situazioni. Dopo 15 giorni turbolenti alla fine hanno accettato.
Alla Roma sei diventato subito amico di Totti.
Siamo cresciuti insieme. Lui è più piccolo di me, abbiamo fatto tante battaglie e tante serate insieme. È stato il mio capitano, poi ognuno è cresciuto e ha fatto la sua strada, lui ha continuato a giocare per altri 10 anni e io ho fatto altro. Ma il rispetto e la stima dopo 25 anni sono intatti. In campo avevamo un grande feeling, quando gli davo il pallone sapevo che me lo ridava meglio di come lo aveva ricevuto. Quel feeling è rimasto, con tutti gli alti e bassi della vita.
La Roma in Giappone ha mandato in campo tanti giovani.
In una tournée come questa non è mai facile per l’allenatore e i giocatori. Però la squadra al primo anno di questa società ha portato un trofeo a casa. Era importante e non era scontato. Sono stato contento e lo sarei stato di più se fossimo arrivati quarti. Quest’anno l’obiettivo è fare sempre meglio per arrivare in Champions, ma non è facile. Ci sono stati tanti infortunati, Dybala ci manca, non ci voleva il derby. Prima della partita con la Lazio stavamo andando bene, poi con quella sconfitta c’è stato un calo. Ibañez diventerà uno dei difensori più forti al mondo, ma deve lavorare un po’ sulla concentrazione. Dispiace per quel gol, da allora è cambiato qualcosa. Ma il campionato è ancora molto lungo, ho molta fiducia in questa società, in Mourinho, in Tiago Pinto. Ho sempre avuto fiducia anche nei momenti difficili.
Che analogie ci sono tra Capello e Mourinho?
Sono due vincenti, sanno essere allenatori di grandi squadre. Puntano molto sulla gestione, del pubblico e della squadra. I risultati parlano per loro. Il lavoro sul campo di Mourinho non lo conosco, è molto diverso quello che è stato fatto in Giappone. So che Capello aveva un modo suo di lavorare durante la settimana, ma era sempre finalizzato a far dare il cento per cento ad ogni giocatore. Non ho mai parlato di calcio con Mourinho, non so come la pensa, ma nella gestione sono molto simili.