Corriere dello Sport (W.Veltroni) – «Italiani e argentini si assomigliano abbastanza. Io vorrei persino votare in questo che è il mio secondo Paese, ma non posso. Quando sono stato qui potevo avere il passaporto ma non so perché ho lasciato correre». Gabriel Batistuta spiega così la sua voglia d’Italia nell’intervista a Walter Veltroni che abbraccia tutta la sua vita.
Gabriel Batistuta, se le dico Circo Massimo, che effetto le fa?
«Festa, gioia. La festa per lo scudetto. La notte magica di Roma».
Come la ricorda?
«La ricordo benissimo. Ricordo che i tifosi si sono arrabbiati perché io non sono salito sul palco. Con Marco Delvecchio siamo andati in moto con due parrucche in testa e ci siamo mescolati così tra la gente. Non ci riconosceva nessuno. Siamo stati proprio sotto il palco e ci siamo divertiti molto. Mi creda: il piacere di vedere tutta quella gente così felice era incalcolabile. Si può vincere in tanti posti, sto parlando del calcio, ma quella sera vedere la gente impazzita, senza pensieri, è stato incredibile. Si capiva che avevano bisogno di festeggiare, avevano bisogno di allegria. Anche la futile, inspiegabile e incontenibile gioia che può darti una vittoria conquistata sul campo da altri. Da altri, che diventi tu. E’ stata una bella cosa. Non è durata solo quella notte, è durata un mese, la città era come sospesa, il cielo sembrava giallorosso. A parte la soddisfazione personale di vincere, il piacere principale e fondamentale è pensare che tutta quella gioia, di tutta quella gente, è anche merito tuo. Della tua fatica, del tuo talento, del tuo lavoro».
Che ricordo le ha lasciato questa città?
«Parlando di calcio il più bello, perché abbiamo vinto. Siamo stati protagonisti anche l’anno successivo. Roma mi ha trattato molto bene infatti torno ogni tanto e saluto gli amici volentieri. Ho conosciuto grandi giocatori. L’allenatore della Roma, Di Francesco, ha giocato con me, o io ho giocato con lui. Francesco Totti che stava emergendo. Erano già quattro o cinque anni che giocava ma ancora non era il Totti che il mondo ha conosciuto e amato. Poi Panucci, Candela, Aldair, Samuel, Montella, Delvecchio, Emerson, Tommasi… Bei ricordi».
Grupo Alegría, cosa le ricorda?
«Il Grupo Alegría è stata la prima squadra di calcio di cui abbia fatto parte. Eravamo nel quartiere, a Reconquista , e c’era questo gruppo di amici. Ci hanno dato la possibilità di giocare a pallone, abbiamo vinto e probabilmente quella euforia mi ha fatto guardare il calcio in un’altra maniera. Il nome della nostra squadretta assomigliava al nostro stato d’animo. Giocavamo in un campo lungo e stretto che sembrava uno scherzo, lo chiamavamo “il lombrico”. Eravamo poveri, piccoli ma pieni di speranze. E’stata la mia prima squadra, non potrei dimenticarla. Ora sono tornato a vivere dove sono nato e tutti i giorni vedo i compagni di squadra del Grupo Alegría. Una bella storia di vita».
Le sue gambe come stanno?
«Sto meglio ora, molto meglio rispetto a due anni fa, riesco a camminare. Ogni tanto faccio persino qualche partitella, come quella di mercoledì sera. Non sto benissimo, ma cammino. Due anni fa pensare a camminare era un sogno. Camminare normalmente era l’unica cosa che desideravo, riuscire a camminare con mia moglie, i miei figli. Da due anni a questa parte ho fatto un paio di punture curative e sto migliorando. Mi mantengo vivo con un dolore che però non ha niente a che vedere con quello terribile che sentivo due anni fa. Ora lo sopporto benissimo. Spero di poter mantenere questa vita. Ho conosciuto l’inferno dell’immobilità. Mi creda, è stata dura».
Quindi il calcio per lei è stato insieme allegria e tortura?
«Sì, il calcio per me è stata soprattutto una grande, enorme responsabilità. Dal momento in cui sono diventato professionista, ogni volta che entravo in campo o all’allenamento sapevo che c’era gente che pagava per andare a vedere uno spettacolo del quale io ero uno degli attori. Quindi da quel punto di vista è sempre stato un lavoro, lavoro duro. Non sono mai stato come alcuni giocatori che riescono a godere in un campo di calcio. Io no, non ho mai goduto dentro un campo di calcio. Molte volte l’ho fatto dopo la partita, dopo il novantesimo, dopo una bella vittoria, dopo uno scudetto. In quei momenti sì, sono stato bene. Però durante il gioco mai, perché sentivo di non poter fare un passaggio inutile o svogliato. Dovevo inventare, fare il meglio, perché mi stava guardando gente che aveva pagato, si era sacri cata per essere felice. Non ho mai pensato che il calcio fosse una storia solo tra me e il pallone. Per me c’è stato sempre il pubblico. Era mio dovere dare il massimo, cercare di scon ggere l’avversario, non fare mai il minimo sindacale. Le mie caviglie hanno risentito anche di questa concezione del calcio. E della vita . E del prossimo tuo».
Chi è il difensore più duro che lei ha incontrato?
«Ho una lista lunga perché all’inizio erano tutti duri, tutti difficili. Poi crescendo non riesci mai a capire se li superi perché sei tu che stai migliorando o perché loro stanno calando. Però mi ricordo di Vierchowod, di Baresi, Maldini, Nesta, Chamot, Bergomi , Ferri. Tanti. Poi cominci a fare gol e tutte le squadre stanno attente a quello che puoi fare. E così non hai più un marcatore, ma due o tre. Tanti ti menavano pure. Io, sia chiaro, mi difendevo. L’importante era che alla fine della partita ci si desse la mano. E così è stato, sempre».
L’allenatore più importante della sua vita?
«Bielsa per le cose che mi ha insegnato, perché ha preso un ragazzino che non voleva giocare a pallone e lo ha trasformato in un professionista vero. E poi Basile con il quale abbiamo vinto le ultime due Coppe America. In Italia Capello, Ranieri. Io, sinceramente, agli allenatori non davo molto retta, nel senso che un attaccante vive più d’istinto. E’ difficile insegnare a un centravanti. Magari ti alleni, studi tutte le mosse però dopo la palla rimbalza e, invece che a destra, va a sinistra e tutto diventa inedito. Ho avuto un buon rapporto con tutti. Non con Passarella, con il quale non c’era feeling. Non sto dicendo che è una cattiva persona. Ma è l’unico con il quale non mi sono preso, con il quale ho avuto un conflitto. Con tutti gli altri solo bei ricordi».
C’è un nuovo Batistuta nel calcio? Higuain le assomiglia?
«No, sinceramente no. E’ giusto che sia così, ognuno deve essere quello che è. A me non piaceva essere paragonato ad un altro, io volevo essere io. Magari prendevo spunti da tutti, ero una spugna. Sono stato umile, guardavo tutti. Da Van Basten all’ultimo attaccante della serie A. Ognuno ti lascia qualcosa, sempre. Higuain o Icardi stanno venendo fuori bene. Higuain sono già dieci anni che è ai massimi livelli, quindi non ha niente da dimostrare. Icardi è un po’ più giovane, però anche lui quando ha voglia, segna».
Cosa è stato Maradona per il calcio argentino e per lei?
«Per me è stato il più grande di tutti. Diego rappresenta anche l’argentino in tante cose, non solo del calcio. E’ il primo che ci ha portato alle stelle, vincendo il Mondiale. Ha carisma, aveva un talento e una fantasia rari. Messi, anche se tecnicamente è uguale o magari superiore, non riesce a superarlo. Il carisma di Maradona non è quello di Lionel. Diego poteva anche gestire lo stadio, tutti guardavano lui. Ho giocato con lui e le posso dire quanto fosse decisivo tecnicamente per la squadra. Io ho visto cosa succede accanto a Diego, vive accompagnato da una luce particolare. Anche se non sono d’accordo con molte cose che lui fa – il suo stile di vita non è il mio, io sono quasi l’opposto – noi due abbiamo però una buona relazione e per me lui è e resterà il più grande».
Se dico che Maradona è poesia e Messi è prosa è giusto?
«Sì, mi sembra una definizione bella e corretta».
Quello che manca a Messi è quel di più, di poetico, di epico…
«Sì, quello che manca a Messi rispetto a Maradona è questa dimensione fantastica, quasi onirica. Neanche alleandosi tutte le ore del giorno potrà raggiungere quello stato, perché non è una cosa che dipende da lui. E’ madre natura. E’ così, si nasce in una maniera o in un’altra. In passato c’erano dubbi su Messi. Ora no. Ora è perfetto tecnicamente, ora non c’è più da discutere, ha fatto più gol di tutti. Nonostante questo per me non è Diego. E probabilmente non lo sarà mai».
E Dybala?
«E’ un buon giocatore, davvero. E sta crescendo. Ma bisognerebbe vederlo al cospetto di altre difese, in altri campionati, per giudicarlo pienamente».
Che impressione le fa Argentina Italia? Oggi l’Argentina è una squadra fortissima e l’Italia non è arrivata neanche ai Mondiali…
«E’ strana, perché dovrebbero essere tutte e due a prepararsi per i Mondiali, invece per l’Italia è una partita che probabilmente le farà piacere giocare soltanto perché c’è l’Argentina di fronte, altrimenti ne farebbe a meno. Il calcio italiano ora non ha neanche il presidente e l’allenatore non sa se sarà lì tra tre o quattro mesi. È una situazione che in Argentina io ho vissuto fino all’anno scorso. Siamo stati due anni senza presidente e l’allenatore andava e tornava: si prendeva un allenatore offensivo, dopo si mandava via e si prendeva uno difensivo. Difetti di noi latini , che non aiutano ad andare avanti sicuri. Una partita strana. Anche se penso che sarà bella. I giocatori argentini si prepareranno attenti a non sbagliare, molti si stanno giocando il posto da titolare. Gli italiani con la voglia di ripartire, di cambiare la loro storia: hanno l’Argentina di fronte e penso sia una bella occasione per ricominciare».
Qual è il ricordo più bello di Firenze che lei porta con sé?
«Ogni giorno dei dieci anni che sono stato lì. Il primo ricordo di Firenze che ho è il pensiero che fosse brutta. Arrivavo da Roma sull’autostrada e capitai a Firenze sud. Mi sono detto: ma dove sono capitato? Perché lì, alla fine dell’autostrada, è comparsa un’immagine per me inusuale. Io venivo dall’Argentina: tutto nuovo, i palazzi di vetro, i grattacieli. Vedere cose di cinquecento anni fa mi ha fatto impressione. Cose che ho imparato presto ad apprezzare, di cui ho percepito la meraviglia e dopo tre o quattro mesi ero già innamorato di Firenze. Avevo capito i fiorentini e le assicuro che non è facile. Loro hanno capito me e io ho sposato la causa viola. Ho pensato che se fossi riuscito a vincere qui sarebbe stata una bella cosa. Non ci sono riuscito, ma nell’intento di arrivarci sono andato lontano. E ora so che Firenze è una città bellissima».
Cosa c’era in quel gesto dopo il gol?
«La mitraglia? Non lo so, forse rabbia. Non c’era niente di speciale, era un gesto istintivo. Lo facevo per i tifosi. Per loro era il massimo».
Che cosa è per un giovane argentino la storia della dittatura in Argentina? I desaparecidos…?
«Un dramma, che io per fortuna non ho vissuto. Io sono cresciuto dopo. I miei genitori me lo hanno tenuto nascosto fino a quando avevo cinque o sei anni. E’ un tema del quale non si è parlato in Argentina per tanti anni. E’ stato un tabù. So cosa è successo, ma non vorrei tornare indietro. Però vorrei parlarne, proprio come stanno facendo ora nel mio paese. Parlarne perché è il modo migliore di garantirsi che non possa ricapitare. In Argentina poi tutto lo Stato ha subito un colpo di autorevolezza e di autorità. Nel mio paese, ad esempio, se dici esercito pensi subito alla dittatura. Ma l’esercito serve, in ogni democrazia. Dovremo ritrovare un equilibrio. Ci riusciremo».
In che cosa si assomigliano un argentino e un italiano di carattere?
«Nei casini, in tutto. Si assomigliano abbastanza. Io vorrei persino votare in questo che è il mio secondo Paese, ma non posso. Quando sono stato qui potevo avere il passaporto ma non so perché ho lasciato correre. E ora che lo voglio è diventato difficile. Io sono figlio dei figli dei figli italiani. Noi eravamo del Friuli. Penso che, come me, il sessanta per cento degli argentini sia, in qualche maniera, italiano. Non è possibile non assomigliarsi».
Se lei dovesse dire ad un bambino che cosa è il calcio come glielo racconterebbe?
«Io ho avuto quel problema con i miei figli. Perché quando si parlava di calcio, io ne parlavo seriamente. Come una professione. Quando ad un bambino di dodici, tredici anni tu dici che, per giocare al calcio, può andare a ballare ma non sempre, può uscire la sera ma non sempre, può mangiare, ma non i dolci, quella creatura ad un certo punto ti dice: “Basta faccio un’altra cosa”. Però a un bambino devi dire sempre la verità. Il calcio, a un certo punto, non è più un gioco. E’ uno sport bello per fare amicizia, per imparare a vivere. Conosci tutte le situazioni della vita: sei contento, triste, devi lottare per raggiungere qualcosa, a volte hai fortuna e le cose ti vengono facili. Altre volte sembra tutto impossibile. E’ la vita. Proprio la vita. Quindi non lo so come lo spiegherei ad un bambino,. Forse gli direi “Gioca a pallone ma stai attento a tutto quello che esiste intorno a te ”. A me è servito. Ho vissuto bene, ho conosciuto bella gente, ma sono stato fortunato, non solo bravo. Ho avuto compagni che non hanno avuto la stessa fortuna e ora sono soli. Il nostro è un ambiente delicato, duro. Spesso penso a loro».
Davide Astori. Che le dice la storia di questo ragazzo?
«Sono ancora sotto choc. A volte voglio parlarne, però rimango senza parole, subito. Cosa dico? Non mi viene da dire niente, solo da pensare al suo destino. Non riesco a trovare le parole, mi sembrano vuote o piccole».
C’è un giocatore italiano che le piace in questo momento?
(Ci pensa a lungo) «Mi piace Ciro Immobile».
Ha qualche rimpianto nel calcio, nella sua vita di calciatore?
«No, ora no. Fino ad un anno fa sì, avevo tutti i rimpianti possibili. Avevo fatto pochi gol, non avevo vinto tanti trofei, non ero contento della mia carriera, niente. Messi mi ha pure superato nei gol in Nazionale. Non ero contento. Da un anno a questa parte sto cambiando, sto cominciando a vedere cosa ho fatto, cosa ero e cosa sono diventato. Sbagliavo, guardavo sempre avanti e mai da dove ero partito. Da quando ho cambiato il punto di vista sono più tranquillo. Anzi sono contento. Perché dal Grupo Alegría e da “La Lombrica”, dove facevamo le porte usando la rete delle borse di patate, sono arrivato a giocare nei migliori stadi, con i migliori giocatori. Ho vinto e avuto l’amore del pubblico. Sarebbe impossibile non essere contento. Ero sciocco a non esserlo».
C’è una maglietta di una partita che lei si porterebbe su un’isola deserta?
«Una non c’è. Forse quella del Newell’s Old Boys. Era la prima volta che mi sono messo calzini, pantaloncini e maglietta tutto giusto, coordinato, di una squadra vera. Quando sono entrato nello spogliatoio mi sono visto nello specchio e ho detto “Bello!”. Poi la prima partita ai Mondiali con Diego. Ho fatto una tripletta. O la maglia della Roma con lo scudetto. Quella della Fiorentina quando abbiamo vinto con l’Arsenal a Wembley. Ce ne sono alcune, che porterei con me. Ma non ne ho nessuna».
Come, nessun ricordo?
«Non ho tenuto niente, perché non volevo che i miei figli mi vivessero come mito. Io sono normale. A casa mia non vedi una foto da calciatore, niente. Non vedi un trofeo, niente. Forse un giorno mi mancherà. Io ho tenuto la famiglia fuori dal mito, da quello che i tifosi pensano di me. Io sono un’altra cosa. Uno normale. I miei figli quello che sanno lo hanno scoperto da soli. Quando, in viaggio, vedono che la gente mi riconosce mi chiedono perché accada. Però io non ho mai detto niente. Il più piccolo ancora mi fa delle domande strane. Mi domanda se ho fatto mai qualche gol su punizione. Guarda Messi, Ronaldo, e chiede a me se ho calciato qualche rigore. Penso di aver fatto bene. Forse ho sbagliato a non tenere le magliette della mia vita. Un giorno mi mancheranno, immagino. I trofei sono da qualche parte, penso di ritrovarli. Alla fine però rimangono le amicizie. Magari se fossi andato via dalla Fiorentina avrei vinto due o tre scudetti da qualche parte, in Inghilterra o in Spagna. Ma sto bene così. Cammino. Ho una bella storia da raccontare. E tanti amici, ovunque».