Elisa Bartoli, calciatrice della Roma Femminile, ha rilasciato un’intervista al sito del club capitolino. Tra i temi trattati l’infanzia e i primi passi nel mondo del calcio. Ecco le sue parole:
Chi era Elisa da bambina?
Ero una persona chiusa, timida, facevo molta fatica a relazionarmi con gli altri. Ero silenziosa, non riuscivo a parlare neanche con i miei genitori e mi tenevo tutto dentro. Diciamo che ancora oggi mi tengo tutto dentro, un po’ meno di prima ma più o meno è quella la linea.
Hai sorelle o fratelli?
Sì, ho una sorella più grande di otto anni, quindi aveva la sua vita e io la mia anche se in casa c’erano delle belle litigate. Vista la differenza di età ero più legata a mio cugino Simone che ha un anno più di me, lui è nato l’8 maggio, io il 7 maggio quindi festeggiavamo il compleanno insieme da mia nonna. Diciamo che ho vissuto la mia infanzia più con lui che con mia sorella.
In che zona di Roma siete cresciuti?
A Ponte Milvio, sono cresciuta praticamente nel cortile di mia nonna che si chiamava ‘il primo lotto’. Adoravo i pranzi della domenica da lei. Ogni volta che finivamo scuola andavamo lì a giocare a calcio dalle cinque fino alle sette e mezza, finché mia mamma non scendeva per prendermi per un orecchio per riportarmi a casa perché altrimenti sarei rimasta lì a giocare fino a tardi.
Giocavi a calcio anche a scuola?
Sì, sin dalle elementari mi mettevo in mezzo ai maschietti a giocare a calcio, è stata sempre una mia passione, però il nucleo di tutto è stato il cortile nel primo lotto di mia nonna. Giocavamo lì anche con i ragazzi più grandi, io ero la più piccola e inizialmente mi mettevano in porta quindi puoi immaginare quante pallonate ho preso.
Quindi è insieme a tuo cugino che hai cominciato a giocare a pallone?
Sì, è anche grazie a lui che sono approdata nel calcio perché lui nella Nuova Milvia e io andavo sempre a vederlo negli allenamenti e alle partite. Un giorno in un allenamento mancava un giocatore e mio cugino mi ha proposto all’allenatore. Giocai difensore centrale, avevo otto o nove anni e da lì mi hanno chiesto di andare a giocare con loro.
Come ti accoglievano gli altri bambini quando ti proponevi per giocare con loro?
All’inizio era un po’ difficile perché ero una bambina. Poi quando vedevano come giocavo e che non mollavo si convincevano che potevo starci. La cosa più bella era quando noi del primo lotto andavamo a sfidare i ragazzi della chiesa con in palio la classica Coca Cola. All’inizio scherzavamo sul fatto che avendo una femmina in squadra eravamo sfavoriti, ma quando poi vincevamo ci divertivamo troppo. Mi apprezzavano, non mi hanno mai mancato di rispetto. Solo chi non mi conosceva a volte faceva le classiche battute del tipo ‘maschiaccio’ o cose così. Nella Nuova Milvia non ho mai avuto problemi, anzi ero anche il capitano, mi volevano bene ed ero veramente felice. Erano le squadre che incontravamo o i genitori degli avversari che ogni tanto creavano qualche situazione antipatica. Contro l’ignoranza si può fare poco purtroppo. Il bambino in fin dei conti è puro, non vede la differenza. È più quello che si ascolta dai genitori che crea dei pregiudizi e condiziona i comportamenti.
Fino a che età hai giocato con la Nuova Milvia?
Fino a 14 anni. Nell’ultima partita il Mister mi sostituì e i genitori dei compagni di squadra tirarono fuori uno striscione per me che diceva ‘In bocca al lupo indomabile capitano’. Mi scrissero anche una lettera bellissima che ancora conservo.
Quando sei entrata per la prima volta in una squadra femminile?
Sono entrata grazie a Giampiero Serafini nella Roma CF che a quell’epoca giocava in Serie B. La mia partita è stata il derby contro la Lazio in Coppa Italia. Mi fece esordire come centrocampista centrale. Il passaggio al calcio femminile è stato strano all’inizio perché ero abituata a giocare forte, i contrasti con i maschi o li facevi a mille o rischiavi di farti male, dopo ogni partita mi faceva male tutto. Nelle prime tre partite ho preso tre ammonizioni. Ma anche lì ho trovato un gran gruppo, nell’arco di tre anni siamo salite in serie A. In squadra con noi c’era Gioia Masia che per me è stata un modello, il mio idolo. L’ho seguita sempre in ogni insegnamento che mi ha dato. In carriera ha vinto tanto ed era una giocatrice di un’eleganza fuori dal comune”.
Nel calcio maschile invece chi era il tuo modello?
Cafu. Dopo quei tre sombreri a Nedved come fai a non amarlo? Un altro giocatore che ammiravo tanto era Alessandro Nesta con le sue magnifiche scivolate, nonostante fosse della Lazio.
E la Roma come la seguivi?
Mio padre molte volte mi portava allo stadio, ma la cosa più bella era quando ci radunavamo tutti insieme con gli zii e i cugini a vedere le partite a casa, anche in dodici persone a fare un macello allucinante. Erano le giornate più belle per me. Quando si perdeva un silenzio di tomba e quando si segnava si spaccava casa. Bellissimo.
Qual è prima partita che hai visto all’Olimpico?
Ero piccola, mi sembra che fosse un Roma-Parma ma non ricordo il risultato. Ricordo solo di aver visto tutto lo stadio giallorosso, l’inno, le bandiere, tutti che si alzavano e cantavano. Questo mi è rimasto impresso, il tifo romano, il calore, i colori, era una festa.
Tornando alla tua carriera, a 21 anni hai lasciato Roma per approdare alla Sassari Torres.
Sì, sono andata in quella che è tuttora la squadra più titolata d’Italia. Ho dovuto lasciare casa perché la Roma CF era fallita, quindi o rimanevo in Serie C o me ne andavo. Non è stato facile andare via da Roma. Sono andata a Sassari senza conoscere nessuno, senza un punto di riferimento. Dall’altra parte del mare, con un aereo o una nave da prendere per raggiungere casa. Nella mia prima notte lì ho pianto. Poi però la passione per il calcio mi ha fatto andare avanti pensando ‘Daje Eli’ fatti forza, fai quest’anno e poi si vedrà’. E invece mi sono innamorata della Sardegna, che con il suo mare mi ha cambiato la vita. In più con gli allenamenti di primo pomeriggio con il sole era un’altra vita, con la Roma CF ci si allenava sempre di sera. C’è stato un assaggio di vita professionistica da questo punto di vista. C’erano però altre lacune come ad esempio nel pagamento degli stipendi, ma per fortuna la mia famiglia mi ha sempre sostenuto.
Come erano le trasferte dalla Sardegna?
Erano… interessanti. Tranne per le partite più importanti come quelle in casa del Brescia o del, Tavagnacco, per le altre la sveglia era alle 4:00 di mattina. Si prendeva l’aereo delle sei e mezza da Alghero. All’arrivo ci scappava un giro al centro commerciale dell’aeroporto poi si andava belle fresche al campo, partita e ritorno in serata. E nonostante questi ritmi siamo riuscite a vincere uno Scudetto e una Supercoppa nel 2013. Ed è arrivata anche la mia prima convocazione in Nazionale.
A quel punto ti sei resa conto di essere davvero diventata una calciatrice di alto livello.
Sì, con la Torres ho fatto un grande passo anche a livello di mentalità di fame di vittoria. Mi allenava Manuela Tesse, anche lei è stata una grande giocatrice. Tra noi c’era un rapporto di odio e amore perché mi da una parte mi massacrava dall’altra mi apprezzava tanto. Era un difensore e infatti mi ha insegnato tanto. Poi avevo accanto persone come Betta Tona, Patrizia Panico, Daniela Stracchi, Silvia Fuselli, Giorgia Motta. Senza dimenticare tutte le altre compagne.
Dopo la Torres, hai giocato un anno al Mozzanica. Com’è andata lì?
Non è andata bene. La società mi trattato benissimo, ma ho fatto veramente fatica a livello di clima. Passare dal mare della Sardegna al freddo del nord è stato duro. Dopo invece è arrivata un’altra bella tappa della mia vita alla Fiorentina. Anche Firenze mi ha conquistata. Sono cresciuta e anche lì ho vinto uno Scudetto e il fatto che per il club fosse il primo ha reso il tutto ancora più straordinario. La Fiorentina è stata la prima squadra professionistica a entrare nel mondo del calcio femminile e lì ho scoperto tante compagne con le quali ho ancora un bellissimo rapporto come Alia Guagni, mia compagna di stanza in Nazionale. Lasciare Firenze è stata decisione difficile, ma visto che l’alternativa era la Roma, ha vinto il cuore. Il ritorno a casa dopo sette anni.
Quando hai capito che la possibilità di venire alla Roma era concreta?
La voce girava da febbraio ma ho preferito evitare di pensarci per rispetto della squadra in cui ero e per non crearmi illusioni. A fine campionato sono stata contattata e non ci è voluto molto per convincermi. L’unica incertezza era dovuta al fatto che in estate sarebbe arrivato il Mondiale. Ma non mi piace salire su un treno in corsa. Ho scelto di prenderlo sin dall’inizio. Roma è casa mia e vincere alla Roma sarebbe come vincere dieci scudetti altrove. In più c’era e c’è un progetto importante, sul quale la Società sta lavorando seriamente.
Come vivi il ruolo di capitano?
Quando me l’hanno proposto ho fatto fatica ad abituarmi all’idea. Per via di come sono fatta, introversa, di poche parole, una persona che fa fatica a relazionarsi. Mi sono fatta tante domande, se fossi all’altezza o meno ma alla fine mi sono convinta. Esperienza, cuore, passione e grinta non mi mancavano e avrei potuto provare a trasmetterle alle mie compagne. Quindi ho accettato, anche come passo di crescita personale. E poi c’era il sogno: essere capitano della Roma, della mia squadra, della squadra della mia città.
Come ti senti a far parte di una generazione che sta attraversando un momento di svolta per il calcio femminile?
Il motore che ha portato avanti il nostro movimento è la passione. Finire gli allenamenti alle 10 di sera, tornare a casa alle undici, rialzarsi alle sei di mattina per andare a scuola oppure far convivere un lavoro con tutto questo. Senza una grande passione non avrei lasciato la mia città e la mia famiglia, non avrei accettato di essere pagata per 10 mesi in tre anni. Che cosa mi spingeva a proseguire? L’abbraccio con le compagne, gli occhi lucidi di mio padre che prende il traghetto per venire a Sassari a vedere la vittoria di uno Scudetto. Tutti i sacrifici, tutte le gioie io me le porto ancora dentro. Per le ragazze di oggi fortunatamente tutto è più alla portata, ci sono strutture migliori, organizzazioni e società più solide. Prima c’era tanta volontà ma le possibilità erano poche. Ora il calcio femminile si sta avvicinando un po’ a quello maschile ma valori come spirito di sacrificio, umiltà, e determinazione non devono mai essere persi.
Come vivi il fatto di poter rappresentare un modello per le ragazze che si avvicinano al calcio?
Ricevo tanti messaggi di bambine che mi prendono come esempio e questa è una cosa veramente bella e anche una grande responsabilità. Mi arrivano lettere con parole bellissime, che mi fanno venire i brividi. È un premio per i sacrifici fatti.
E come vedi le nuove generazioni di calciatrici?
Mi baso su quanto vedo nelle ragazze nostre della scuola calcio e della Primavera che hanno veramente un gran bel livello tecnico e tattico, sono molto più preparate di quanto lo fossimo noi alla loro età. Quello che spero veramente che non si perda quella fantasia che ancora vediamo in campo e che magari rischia di essere sacrificata per la preparazione atletica e tattica. Un po’ come nel calcio maschile, l’estro di giocatori come Roberto Baggio, Francesco Totti, Ronaldinho, Ronaldo è più raro da trovare in un calcio sempre più fisico.
Com’è il tuo rapporto con Betty Bavagnoli?
È un bellissimo rapporto, di stima, di rispetto, anche di amicizia. Non ho mai avuto a che fare con una persona così pacifica. Anche quando si arrabbia è elegante. Io invece sono molto impulsiva ma mi basta che lei dica ‘Elisa calma’ per frenare gli istinti. Abbiamo un bel dialogo, un elemento importantissimo all’interno di una squadra. Sono davvero felice di aver trovato un’allenatrice come lei e spero che mi accompagni ancora per tanto tempo.
Parlando del Mondiale dello scorso anno, quali sono i ricordi più belli che hai?
Sono tanti. Il primo è quando sono stata sostituita in Italia-Brasile e ho fatto il giro dello stadio per arrivare alla panchina. Tutti si sono alzati ad applaudirmi ed è stato uno dei momenti più belli della mia vita. Non me lo aspettavo e non lo dimenticherò mai. Anche la fine è stata bella. Abbiamo perso con l’Olanda ma è in quel momento che abbiamo realizzato quello che avevamo fatto. Eravamo tra le prime 8 del mondo ed eravamo l’unica squadra di atlete dilettanti. È stato bellissimo anche ricevere la chiamata di mio cognato e dei miei genitori che mi descrivevano l’attesa che c’era in Italia per le nostre partite che mi ha fatto ripensare a quella che vivevo io da tifosa durante i Mondiali maschili. E un’altra cosa che mi ricorderò per sempre sono tutte le persone che mi hanno scritto, dalla bambina all’uomo adulto, alla signora. L’idea di avere unito tutto il Paese mi dà una grande emozione”.
E l’emozione dell’esordio?
Anche quella non la dimenticherò mai. Il primo Mondiale, a 28 anni. Al momento dell’ingresso in campo contro l’Australia eravamo sotto 1-0. Avevo il cuore a mille e pensavo: ‘Mo’ entro e spacco tutto!’. Vincere al 90’ poi è stata un’esplosione indescrivibile. Quella notte non ho dormito, ripensavo solo alla partita, ai messaggi ricevuti, agli abbracci, ai sorrisi, ai cori sul pullman al ritorno. Spettacolare.
Venendo all’attualità e a questo prolungato periodo di isolamento, cosa ti manca di più della vita normale?
Tutto. Mi manca anche andare a prendere un caffè al bar. Mi mancano la mia famiglia, il mio cane, le mie amicizie. Mi manca il pallone, ridere, scherzare e sudare con le compagne. Mi mancano i sorrisi, gli sguardi di intesa. Mi manca la libertà.
La giornata come ti si svolge? Hai un programma di allenamenti personalizzato?
Sì, la Roma ci manda i programmi. In questa settimana abbiamo svolto sessioni doppie tranne la domenica in cui ne facciamo una singola. Riceviamo anche video per lo svolgimento corretto degli esercizi fisici e di tecnica e anche filmati di partite da studiare ed analizzare. Sto sfruttando ogni angolo di casa per allenarmi, per restare in forma.
Approfittando del momento di interruzione che bilancio fai del percorso svolto della Roma in questo anno e mezzo.
Sicuramente veniamo da un anno di crescita con l’interruzione che è arrivata forse nel nostro momento migliore a livello di organizzazione, di sistema di gioco, di intesa. Spero che questo percorso riprenda da dove si è fermato e spero che questo avvenga il prima possibile, in condizioni di sicurezza ovviamente. Siamo ancora in lotta per il secondo posto, per la Coppa Italia e siamo una squadra in cui quasi tutte le giocatrici segnano: questo dà l’idea della bontà del nostro gioco. In più siamo un bel gruppo, in cui tutte si sacrificano per le compagne. Dobbiamo continuare su questa strada e crescere sempre di più.