Un paio di Marlboro, un caffé, qualche sorsata d’acqua, i jingle di “Grazie Roma” che arrivano da Trigoria nel suo cellulare e quasi tre ore, che definirei molto generose e per nulla reticenti. Lui è Franco Baldini.
Non lo vedevo da tempo, dai funerali di Pietro Calabrese. Lo trovo in una forma notevole, per nulla intaccata dall’aver dovuto trovare un parcheggio plausibile per la sua Volvo a due passi da piazza del Popolo. Con noi, l’avvocato Mauro Baldissoni, l’avvocato che ha assistito DiBenedetto e soci in una trattativa che avrebbe spossato anche la Penelope omerica. Siamo al posto giusto e forse anche nel momento giusto, terzo piano dello studio Tonucci, dov’è nata di fatto la nuova Roma. Vado all’appuntamento con l’eccitante certezza di dovermi confrontare con un uomo intelligente, che ha il piacere dell’argomentazione e non disdegna le domande brutali. Meglio così, ne ho parecchie da fargli. Voglio sapere tutto, non solo su Luis Enrique, Osvaldo, De Rossi, Totti e contratti vari, ma anche e soprattutto su quanto è lontana la Roma di oggi da quella che lui ha immaginato e quanto è lontano lui da quello che la Roma, in senso lato e alto, i tifosi, la città, si aspettano da lui. La città sembra divisa, non so se equamente, tra innamorati fideisti, dubbiosi e scettici a prescindere. Baldini risponde a tutto e mostra solo un po’ di apatia quando si parla del passato. Lo consegno stremato a Trigoria, ma ne valeva la pena.
Subito la notizia. Il suo contratto. « Ho firmato per quattro anni ».
Parliamo di cifre?
«Seicentomila euro l’anno. Per adesso merito questo».
E’ quanto ti hanno offerto gli americani?
«Loro mi avevano offerto un milione, ma ho risposto che era troppo».
E’ così incredibile che ci credo.
«Ho rinunciato solo momentaneamente. Vorrà dire che meriterò di guadagnare di più nel tempo».
Guadagnavi di più in Inghilterra?
«Lo stesso, ma ho rinunciato ad altre offerte molto più vantaggiose. Un nome? Il Tottenham».
Pentito?
«Non più di quanto sapevo che lo sarei stato. Quanto sta accadendo è in linea con le mie aspettative. Ti dirò di più: la considerazione che ho dell’allenatore va oltre le mie speranze, cresce ogni giorno di più».
Su Luis Enrique ci torniamo. Hanno creato molto allarme le ultime dichiarazioni di Fenucci.
«Incomprensibilmente. Un amministratore delegato può parlare solo di prospettive legate ai numeri. E lì Fenucci si è correttamente fermato. Non è da lui che possiamo sentir parlare di sogni da coltivare. Ho sentito invece speculazioni assurde, come se avesse dichiarato che la Roma non ha una lira, che non terremo De Rossi e che il progetto non esiste».
E invece?
«Il fabbisogno della Roma è coperto per i prossimi tre anni, la società investirà e su De Rossi stiamo lavorando».
Deludente questo misconoscimento da parte di qualcuno?
«Sinceramente un po’ me l’aspettavo. L’ambiente lo conosco…».
Da quanto dice lo stesso Fenucci avete ereditato una situazione che definire pesante è un eufemismo generoso. Forse questo andava spiegato meglio.
«E’ vero, non è emersa bene questa cosa. Colpa mia. Il fatto è che quando vedo i governanti riferire al passato le proprie miserie la trovo una cosa odiosa. Chiamiamolo un errore di comunicazione».
Come rimediamo? Avete spiegato bene dove volete andare ma non da dove venite.
«Mi basta dire questo: che tutti coloro che oggi scrivono o parlano in malafede di questa Roma dovrebbero quanto meno pensare che, non fosse stato per gli americani, oggi non potrebbero nemmeno scrivere o parlare di Roma».
La Roma ha rischiato davvero il fallimento?
«Vuoi una definizione sul passato? E’ passato».
Una cosa voglio dirla. A fronte di un’attesa messianica, la presenza di Baldini in questa Roma risulta ancora impalpabile. Una tua scelta?
«Sono entusiasta delle persone che stanno lavorando da sei mesi e più su questa cosa, ecco chiamiamola cosa. Non è che uno arriva e pretende subito di alterare gli equilibri esistenti. Ho fatto un po’ da spettatore ma mi rendo conto, a partire da oggi, da questa intervista, che è venuto il tempo di riprendermi la Roma. Questa è la mia Roma, gli americani mi hanno dato carta bianca e ne devo rispondere. Mi devo esporre».
Non so se il romanista è il miglior tifoso del mondo, certo è il più sentimentale. Baldini che lascia la Londra glamour e sceglie di tornare nelle viscere di Roma, della Roma, ha acceso forti sentimenti.
«Ne sono tanto consapevole che mi sono ritrovato a farlo, pur sapendo che la qualità della vita mi si sarebbe complicata».
Un esempio di questa complicazione?
«Che non penso ad altro. Che non ce la faccio più a ritagliarmi un mio spazio per godere di altro. Mi sono sempre salvato dal calcio, grazie a questo. Da un mese e mezzo non ho un pensiero che non sia la Roma».
Cos’è che non sta funzionando?
«Non funziona che ogni tanto perdiamo. Cioè quello che era normale accadesse. Metti in moto una cosa difficile, nuova, ragazzi giovani che devono sposarsi con calciatori più anziani, allenamenti, percezioni diverse, tutto è cambiato».
E’ un campionato scadente, perché non pensare a vincere subito?
«No, non è un campionato scarso. Non c’è l’Inter di turno che ammazza il torneo, ma ci sono quattro o cinque squadre che possono battere chiunque. Questo anno ci serve per consolidare il gruppo e un’identità di gioco. Di sicuro vogliamo arrivare ai vertici del calcio internazionale. Non sono venuto qui per vedere la Roma vivacchiare».
Il caso Osvaldo. Dissento su come è stato trattato. Il dogma che prevale sulla flessibilità. La squadra si è ricompattata. Tornare indietro non sempre è segno di debolezza.
«Luis Enrique è un hombre vertical . Lui è convinto che il gruppo si crea nel rispetto e nella dedizione al lavoro. Vale per tutti, dai calciatori ai magazzinieri. I giocatori sono viziati dall’ambiente, vivono in un mondo dove diecimila persone ti vezzeggiano. Sbagli, una pacca sulle spalle e passa tutto».
Non bastava la multa?
«La multa non serve più di tanto. Giochi, segni un gol, diventi un eroe, la gravità del tuo gesto sparisce. Funziona così nel calcio. Voglio dirti questo: proprio perché Osvaldo sarebbe stato importante a Firenze per noi, per questo era giusto escluderlo, per far passare meglio il messaggio».
Questa Roma è un’impresa ambiziosa. Se un gruppo di samurai s’impegna in un’impresa non m’interessa sapere quante zuffe ci sono dietro tra loro.
«Ti sfugge che per un allenatore i comportamenti dei giocatori sono più importanti di qualsiasi altra cosa. La dedizione alla causa comune è centrale per un uomo come Luis Enrique».
La sua intransigenza non scatena l’effetto opposto?
«Giuro di no. Tutti riconoscono in Luis Enrique un’autorità dal punto di vista morale. Contenti o no, tutti gli riconoscono la profonda onestà».
Nel comunicato avete ribadito tre volte che è stata una scelta dell’allenatore.
«Quello è stato un errore, sottolinearlo così tanto. Volevamo semplicemente rimarcare che il gestore del gruppo è lui. La scelta è condivisa da tutti noi».
Si dice che non doveva uscire dallo spogliatoio.
«Ecco le logiche del vecchio calcio che non sopporto. E poi, una volta che lui ha deciso che non l’avrebbe fatto giocare, come fai a non dirlo? Come fai a punire qualcuno e non dire perché lo fai?».
Lo stesso Osvaldo, tapiro in mano, ha detto che non doveva uscire dallo spogliatoio.
«A Osvaldo queste cose sono già capitate in passato. Una multa, la pacca sulla spalle e la tendenza rimane lì latente. Oggi ha la possibilità di non ripeterle più».
Com’è andata la cosa?
«Io l’ho saputo solo sabato sera, quando mi ha chiamato Luis Enrique. “ Ho deciso di metterlo fuori “, mi ha detto. “ Vuoi ripensarci? “ “ No “. “ Allora, lo comunichiamo “. L‘abbiamo decisa io e lui questa cosa».
Non solo Osvaldo. Cicinho, Heinze, gli stessi Bojan e Borriello. Altri precedenti disciplinari?
«Non si possono accomunare questi episodi. Luis Enrique non deroga dai suoi principi. Ha un rapporto franco e diretto con i calciatori. Gli piace che le cose gli vengano dette in faccia, come fa lui con tutti. Qualcosa ci sarà stata, ma lui non esclude mai un giocatore per problemi interpersonali. Con Osvaldo è diverso, era un problema di gruppo».
Cicinho sparito di colpo nel nulla fa impressione.
«Quello che è preponderante in Luis Enrique è come si allenano i giocatori in settimana».
L’intransigenza di Luis Enrique serve a tenere in piedi l’impresa Roma che ha ancora le gambe malferme o rischia di affondarla?
«Se non hai questa intransigenza, Roma è un posto che ti si mangia in tre secondi».
Quando ho scritto di Luis Enrique alieno, lo intendevo come un complimento.
«Lo è anche per me. Volevo un alieno. Estraneo alle logiche di questa città. Non c’entrano la Spagna o il Barcellona. Volevo uno che avesse una visione, un sistema di principi, al di là di mettere insieme undici calciatori».
Canovi si è lamentato. Dice che Luis Enrique fu una sua idea e non l’avete riconosciuto. Hai letto?
«Tristemente. E’ una cosa tipica dei procuratori, ti fanno ventimila nomi, poi se capita un nome tra quelli, se lo attribuiscono».
Che cosa ti entusiasma davvero di Luis Enrique?
«Il calcio che vuole proporre e l’uomo. La dedizione e la passione. Tutto. Lui ha sempre in testa uno scopo didattico, non c’è mai in lui una convenienza del fare o del non fare. Questo lo percepiscono anche i giocatori. I risultati? Verranno anche quelli e sarà una grande festa».
Più grande del 2001?
«Vincere è bello, ma come hai vinto è ancora più importante. Vincere o perdere oggi ci condiziona troppo, un giorno vinci e il mondo è bello, l’altro perdi e il mondo è un posto da dove scappare. Voglio portare questa Roma a un punto in cui vincere sarà una costante».
Sarà bello anche ricordando le tribolazioni della partenza.
«Chi le dimenticherà, sarà la gente intorno a noi. Noi no di certo».
Dove può e deve migliorare Luis Enrique?
«Mi verrebbe da dire nel fare compromessi con l’ambiente, ma azzererei tutto quello che ho detto fin qui. Lui è un uomo estremamente intelligente. Se dovrà rinunciare a qualcuno dei suoi principi perché è utile alla squadra non avrà problemi a farlo».
Che è successo realmente con De La Pena?
«La moglie non voleva trasferirsi a Roma e lui è dovuto tornare a Barcellona. Una grossa perdita. Parliamo di un ragazzo molto intelligente, carismatico. Poteva essere quell’elemento di flessibilità, un mediatore culturale tra l’allenatore e l’ambiente».
Che personaggio è Walter Sabatini e che contributo sta dando all’impresa Roma?
«Uomo di una passione smodata, calato nelle cose del calcio dalla testa ai piedi, venticinque ore al giorno, che persegue ferocemente il bene della Roma».
Cosa ti senti di dire agli impazienti?
«Che l’impazienza di vincere è la maniera sicura di perdere. Che il Manchester di Ferguson ci ha messo degli anni ad affermarsi e che Sacchi con il suo Milan ha rischiato di affondare il primo anno. Scelgo esempi importanti non perché sono megalomane ma per ribadire che sono tornato qui a Roma sognando, io e tutto lo staff, il massimo per questa Roma».
Fenucci ha escluso investimenti importanti.
«Tutte le volte che gli americani riterranno opportuno intervenire lo faranno».
Parliamo anche di nomi eccelsi?
«Sì, quando ci saranno i presupposti. Avendo la sensazione che sarà giusto fare un sacrificio, lo faranno».
Anche prima del 2014? Stiamo smentendo Fenucci.
«Fenucci ha fatto benissimo a dire le cose che ha detto, a partire dai numeri che ha a disposizione. Io mi sento autorizzato ad ammettere possibilità che vadano anche al di là della stretta logica dei numeri».
Si parla di ritardi negli stipendi.
«Sintomo di ostilità in un certo ambiente. Stiamo parlando di dieci, quindici giorni. Niente, se confrontato ai cinque, sei mesi del passato».
I cinesi arrivano?
«Non so nulla dei cinesi ma so che gli americani non hanno preso la Roma per speculare. Lo capirebbe anche uno sprovveduto che comprare la Roma, a partire dalla situazione in cui era, non è certo un business. Sono uomini di successo, tutti di origine italiana, che cercano in questa avventura una gratificazione personale. In quest’ottica, ben vengano altri soggetti da coinvolgere per arrivare prima a certi obiettivi».
Sempre convinti della scelta fatta?
«Registrano certe difficoltà dell’ambiente, si fanno domande, ma senza subire contraccolpi. Hanno investito decine di milioni per acquisire la Roma. Non solo si sono accollati lo stato di sofferenza di prima, ma hanno fatto investimenti importanti sul mercato, senza i soldi della Champions».
Anche qui il riconoscimento latita.
«Attenzione, c’è da fare una distinzione importante. Abbiamo trovato più difficoltà dove ne aspettavamo di meno e meno dove ne aspettavamo di più. La vera, grande sorpresa per me è stata nell’atteggiamento dei tifosi. Una sorpresa talmente bella che la tratteremo come merita».
Che significa?
«Fargli vedere che non sbagliavano a darci fiducia».
Lo striscione della Sud. “Mai schiavi del risultato”.
«Sono romantico nell’animo. Quella visione lì, in questo momento non facile, mi ha reso un uomo felice».
Possiamo dire che il peccato originale di questa squadra è una certa leggerezza, al limite del difetto di personalità? Il calcio italiano è duro, fangoso.
«Può darsi. Interverremo nel mercato per colmare questa carenza strutturale. Cercheremo i “duri” della situazione. Ma è giusto dire che, se vogliamo fare un certo tipo di calcio, le farfalle sono indispensabili».
Sabatini vuole una Roma arrogante.
«Condivido. Ma questa è già una Roma diversa da quella scolastica dell’inizio. Quella stava ancora imparando la lingua, faceva la traduzione mentale, ora comincia a pensare in quella lingua. Dobbiamo anche considerare che i giocatori stranieri, giovani per di più, non sono abituati a certe pressioni. Senza la pazienza, gente come Platini e Falcao sarebbe stata rispedita al mittente».
Lamela e Pjanic hanno la scintilla del campione?
«L’investimento che abbiamo fatto per loro dimostra quanto ci crediamo. Sono due nati per giocare al calcio».
Capitolo spinoso. Il contratto di De Rossi.
«Se ne parla troppo e dobbiamo imparare a tacere. Ti dico solo che, sia come calciatore, ma soprattutto come persona, lui è il tipo di cui abbiamo bisogno».
Perché tante difficoltà? A un certo punto sembrava vicina la firma?
«Parliamo di un giocatore appetito da tutto il mondo e che aveva solo sei mesi di contratto. Un uomo intelligente all’apice della carriera, tentato da mille prospettive, non solo economiche, tutte legittime. Questa è la difficoltà».
Sarebbe rispettabile anche la scelta di andarsene?
«Ci mancherebbe altro. Lui sta legittimamente valutando tutte le prospettive della questione. Posso sperare solo che non faccia quella scelta».
Sarebbe un grosso contraccolpo per la vostra impresa in costruzione?
«Posso aggiungere solo questo su Daniele: nel caso non dovessimo riuscire, sarà perché avrà prevalso in lui una diversa prospettiva. Noi gli stiamo testimoniando quanto è importante per noi. Da qui in poi ne parleremo solo per dare la risposta definitiva. Contratto si fa o non si fa, non se ne parla».
Si fa?
«La situazione è totalmente aperta, si può fare e no».
Lo stipendio di DiBenedetto. C’è chi grida allo scandalo. Interviene Baldissoni .
«Lo scandalo è di chi ne parla… Di compenso non si è ancora parlato. Saranno i soci a stabilirlo. C’è una delibera dell’assemblea che ha stanziato la stessa cifra dell’anno prima come tetto massimo».
Lo stadio resta centrale per lo sviluppo di questa Roma.
«Lo stadio è la possibilità di avere risorse in più da dedicare alla Roma. Non è l’obiettivo, ma il mezzo per fare più grande la squadra, con l’aumento dei ricavi».
Quanto siamo lontani? (risponde Baldissoni).
«Vista la confusione che si è creata sull’argomento, attorno a presunti accordi con costruttori, la società ha deciso di proseguire nella questione a fari spenti, incaricando una società del settore immobiliare di fare tutte le ricognizioni del caso, tecniche e scientifiche».
Uno squarcio dal passato, Capello a Trigoria.
«Che all’allenatore dell’ultimo scudetto fosse preclusa la possibilità di tornare a Trigoria era inaccettabile».
Di questo si trattava?
«Se tu sai di non essere bene accetto in un posto, non ci vai. Mi è sembrato giusto invitarlo a Trigoria, un posto dove Capello ha lasciato una grande traccia».
Me ne parlava anche Pradè dell’importanza di Capello. A proposito, che ne è stato di Pradè?
«Sta studiando l’inglese, mi risulta. Non c’era nella Roma il ruolo per lui. Lui pensava legittimamente se stesso come direttore sportivo e io in quel ruolo avevo scelto Sabatini».
Qualcosa che nessuno sa o sospetta di Capello?
«Che ama Roma e che avrebbe voluto frequentarla più spesso e più a lungo».
Il giocatore più importante di quello scudetto?
«Gioca ancora nella Roma di oggi».
A parte Totti?
«Faccio un nome: l’attuale presidente del sindacato calciatori, Damiano Tommasi».
Incidente chiuso con Francesco. Sta seguendo i tuoi consigli?
«Non erano consigli, ma solo un mio punto di vista. Totti lo vedo sereno e coinvolto. Lui è un bravo ragazzo che mi riconosce la buona fede. Se preferisco non parlare di lui è perché voglio tenere il focus sulla squadra».
Enrique “Zichichi” è una sua invenzione?
«A Roma c’è il gusto dei soprannomi. In “Zichichi” non c’è sarcasmo cattivo ma, anzi, percepisco l’ammirazione di fondo per un allenatore che vive il calcio come una scienza. E una passione, aggiungo io».
Sei in macchina bloccato nel traffico. Accendi la radio, cosa ascolti?
«Radio Subasio. Ho pochi momenti di relax e, tra una telefonata e l’altra, cerco la musica per rilassarmi. E poi ogni ora c’è il notiziario, quei due, tre minuti, per rendermi conto che esiste un mondo al di fuori della Roma».
Non sei avido di conoscere la voce dei tifosi?
«Quella l’ascolto la domenica allo stadio o leggendo striscioni meravigliosi come quello della Sud. Non leggere o ascoltare tutto, in una città come Roma, è anche istinto di sopravvivenza».
La musica che ti dà pace?
«La musica autoriale. Fin da piccolino sono malato di Battisti, Lo conosco a memoria. Lui, De Andrè e Gaber mi hanno condizionato la vita. Aggiungerei De Gregori, se non si turba a essere accostato a tre defunti».
Sai già che, se le cose non andranno, te ne diranno di tutti i colori. Che sei un radical chic che si è scagliato un giorno contro il campione popolare in cui la città s’identifica.
«Vengo da Reggello, la provincia più remota. La mia storia è molto più simile a quella di Totti che a quella di un radical chic ».
Da esteta, il gol annullato a Osvaldo.
«Nessuno ce lo può togliere. Non c’è guardalinee che possa cancellarlo».
Burdisso stampellato, una grave perdita?
«Assolutamente. Lui è un altro come De Rossi. La qualità della persona spesso eccede quella del calciatore».
Hai esultato in cuor tuo per la sentenza su Moggi?
«Non sono carogna abbastanza da esultare per una sentenza ai danni di nessuno, chiunque sia. Moggi l’ho confinato nel passato».
Tavolo della pace. Che roba è?
«Non so bene. Se parliamo di pace vuol dire che c’è una guerra. Cos’è una guerra del Coni? Di che guerra parliamo? Dico che qualsiasi iniziativa che porti distensione nei rapporti è auspicabile. Non so se questa lo sia».
L’asse Roma-Napoli?
«Non c’è nessun asse, ma solo fantasie di De Laurentiis che stiamo ascoltando».
Fratelli di sangue al di là del sangue?
«Li ho persi quasi tutti per strada. Simona, la regista della mia compagnia teatrale a Reggello, altri, nessuno legato al mondo del calcio».
La compagna inglese che dice della tua totale immersione nel calcio romano?
«Non ho mai parlato delle mie cose private. Nemmeno quando mi perseguitava la leggenda che ero diventato importante nella Roma perché avevo una relazione con Rosella Sensi, con cui al massimo posso aver preso il caffè. Posso solo dire che a Londra, tra le cose belle, ho trovato anche i miei affetti».
Ancelotti e Spalletti fanno sapere che tornerebbero volentieri a Roma.
«Mi lusinga. Individuano nella Roma un bel posto dove lavorare».
Legato indissolubilmente a Luis Enrique?
«L’abbiamo scelto e ne siamo sempre più convinti. Certo se lui un giorno dovesse arrendersi, ne dovrei prendere atto».
Ed entrare in un mondo parallelo.
«Vale anche per me. Nel salvaschermo del mio cellulare c’è scritto: “Ricordati di avere sempre un altro posto in cui andare”. Il giorno in cui sarò inseguito e insultato dalla gente che mi vorrà cacciare, ne prenderò atto. Non c’è nulla di definitivo. Anzi no, una cosa c’è e te la voglio dire, così mi costringo a mantenerla. Credo talmente tanto in questo percorso che per me la storia del calcio italiano si chiude con la Roma. Non andrò mai in nessun altro club italiano. Inizio e finisco con la Roma. Non avrò altro Dio».
Corriere dello Sport – Giancarlo Dotto
Corriere dello Sport – Giancarlo Dotto