«Sono diventato tifoso di tutti i tifosi: sono tutti figli miei». Lo dice un papà al quale hanno ucciso un figlio di 26 anni, Giorgio Sandri. Oggi sono quattro anni che un poliziotto gli ha ucciso Gabriele.
A Badia al Pino, Arezzo, A1, dove da oggi ci sarà una stele. Resterà sempre lì, come il dolore che può provare soltanto un genitore.
E’ uno strazio talmente grande che non ci arriva il linguaggio: non c’è una parola che riesca a definire la perdita di un figlio. Se perdi un genitore sei un orfano, ed è nel linguaggio com’è nell’ordine naturale. Se perdi un figlio mancano le parole, muori con lui. Vivevi per lui. Continuerai a voler vivere pensando a lui. Vivrai in qualche maniera per lui. Quella qualche maniera per Giorgio Sandri «sono tutti i tifosi che ho incontrato e che io chiamo il grande popolo di Gabriele: se tu mi chiedi qual è la cosa più bella che ho sentito su mio figlio in questi quattro anni io ti dico che sono i ragazzi che mi hanno abbracciato, che mi hanno sorriso. I tifosi che sono stati male per quello che è succeso a Gabbo mi hanno aiutato ad andare avanti, senza di loro non ce l’avrei fatta. Senza quest’onda di amore che mi è rimbalzata da quel giorno e che continua ad avvolgerci non sarei mai riuscito ad andare oltre certi silenzi, anche quelli omertosi, contro un muro di gomma che si è alzato subito, sin dal momento stesso della notizia dell’assassinio di Gabbo. Quando l’hanno fatto passare per teppista, quando poi il giorno dopo hanno parlato più degli incidenti di Roma e non dell’assurdo omicidio di un ragazzo che stava andando a seguire una sua passione. Loro sono tutti figli miei».
La grandezza di questa storia sta nella grandezza di questo dolore, dei veri fiori che ha fatto sbocciare. Sono tutti figli suoi perché sono i ragazzi che un po’ continuano a far vivere Gabriele, quando lo cantano allo stadio, quando oggi andranno a Badia al Pino, quando andavano in quell’autogrill maledetto a portare un fiore, un pensiero, una sciarpa da annodare come il groppo in gola. «E l’inciviltà è che tutto questo fu fatto rimuovere, venne negato, proibito. Quell’ammasso di sciarpe intrecciate di tutti i colori era un monumento alla memoria di Gabriele, era già il simbolo di quello che aveva prodotto la sua morte: fratellanza, un sentimento di amore». Quella morte come un sacrificio per portare nuove parole, nuove insegnamenti, nuove riflessioni. E un papà con la sciarpa della Lazio in Curva Sud «piena di figli». Oggi sono quattro anni che hanno ammazzato Gabbo ma Gabbo continua a essere vivo. La stele di oggi ha questo significato. Come un dovere. «Ci abbiamo messo più di un anno per ottenere il permesso, un anno di iter burocratico per avere qualcosa che è doveroso: un ricordo lì dove è stata ammazzata una persona. Mio figlio».
Nel suo nome Giorgio e Cristiano hanno creato una Fondazione: «Che combatte la violenza, che promuove i valori che aveva Gabbo, che hanno questi figli. La cosa che mi dà fastidio è quando sento parlare male dei ragazzi di stadio, dei tifosi. Chi fa così non ha capito niente, non sa il sentimento che li muove, dovrebbero solo imparare dal loro cuore. Lo sport, la passione, l’aggregazione, l’altruismo. Il sorriso. Sono questi i valori della Fondazione. Erano la vita del mio Gabriele».
Nel suo nome, oggi, 11 novembre 2011 accadranno tante cose belle: «Quella che più ho a cuore è la raccolta del sangue che ci sarà in tante città. La Fondazione è contro la violenza a 360 gradi, è per la vita». La Fondazione è contro quello che successe quella sera dell’11 novembre 2007, gli incidenti sfociati (o previsti?) dalla rabbia: «Li condannai all’epoca, li condanno adesso, sono deprecabili e lo sono non solo per il fatto in sé. Quegli incidenti hanno fatto male innanzitutto a Gabbo. Sono stati utilizzati contro di lui. Il giorno dopo in Italia il titolo dei giornali era “Guerriglia a Roma”, “Rabbia ultras” e non: “Hanno ucciso un ragazzo”.
Imperdonabile». Imperdonabile per Giorgio Sandri è il poliziotto che ha sparato a Gabriele: «Perdono? No. No, no. E poi quella persona non lo vuole, non ci ha mai scritto nemmeno due righe, non lo hanno fatto nemmeno i suoi genitori, nemmeno a mia moglie, a Daniela, nemmeno alla mamma di Gabriele hanno detto mai niente».
Continuano a mancare le parole. E’ il nome di Gabbo che si impone. Il suo ricordo. La sua musica, Meravigliosa creatura, il murales, De Silvestri, flash che stanno negli occhi di questa città. Nel cuore del cuore di Roma. Nella curva di ognuno di noi, Nord o Sud non fa differenza. Chi non lo capisce non lo capirà mai, perché non c’è niente da capire: è il valore della vita contro qualsiasi altra cazzata. «Io l’ho detto sono diventato tifoso dei tifosi più che della Lazio. Io ho un ricordo enorme di quella mia serata in Curva Sud. Lo sai… L’emozione. I brividi. Ho pianto. E sì sarebbe bello vedere la Roma giocare con il logo della Fondazione, con Gabriele sul petto». E’ l’ultima idea, l’ultimo fiore. «Ne ho parlato in radio qualche giorno fa (Radio Ies, ndr)e il giorno dopo ho ricevuto una chiamata dalla Roma. E’ stato bello e sarebbe bello». Sarà bello. E se dovesse succedere Giorgio Sandri sarebbe pronto a fare cosa. Un’altra volta: «Tornerei in Curva Sud e tiferei per la Roma. I tifosi li sento tutti figli miei». Lo dice un papà. Il papà di Gabriele per sempre.
Il Romanista – Tonino Cagnucci
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