“Pivello”. “Un azzardo”. “Un signor nessuno della panchina”. Così è stato gratificato il signor Luis Enrique quando è diventato tecnico della Roma. Ieri a nove colonne gazzette e corrieri d’Italia incensavano in maiuscolo l’Idea dell’Inter, la scelta coraggiosa del lider Maximo Moratti di aver affidato l’Inter al trentaseienne Andrea Stramaccioni. Evidentemente la serie B spagnola conta molto meno di un mezzo campionato di Primavera. Invece non conta il fatto che Luis Enrique con il Barcellona B abbia fatto il record di punti e di piazzamento della storia di quel Barcellona, che questa cosa a Barcellona l’anno scorso era sentita, coltivata, perseguita. Ottenuta. Sono già chiacchiericcio i discorsi fatti da tutti sul fatto che tra campionato Primavera e quello di serie A passano maree di categorie e che tutti si auguravano di fare come in Spagna dove la differenza non è solo quella del “basta che se magna”. In Italia invece va così e ci vuole sempre qualcosa da far digerire senza fartene accorgere, per questo c’è la Milano da bere. Se la cantano e se la suonano. Si fanno i trofei internazionali a invito per vincerli e poi li chiamano “Prima edizione della Champions League giovanile”. Strafalcioni.
La Roma di Alberto De Rossi campione d’Italia vince la Coppa Italia davanti a 25.000 tifosi, dopo aver sfiorato il Viareggio. Dalla Coppa Italia Stramaccioni è uscito agli ottavi di finale, dal Viareggio pure. Ma nessuno qui critica Stramaccioni che a Roma ha già dimostrato di poter avere un grande futuro. E’ il contorno. Non sono nemmeno le nove colonne che lo beatificano (l’invidi anon può essere mai figlia di Roma) ma è il perché di quelle nove colonne, cosa reggono quelle colonne: sempre lo stesso Moloch che trasforma o schiaccia i cosiddetti “signor nessuno”. Ai bei tempi la chiamavano Industria Culturale, quella che fabbrica fenomeni per metterli in vetrina, smerciarli, per creare un costume, una retorica, una moda, in ultima istanza per creare conformismo e quindi consenso. Però stavolta è troppo immaginare Interello come la Comune di Parigi, il petroliere Fidel Moratti che marcia contro l’establishment cantando l’inno della Saras mentre presenta al popolo in giacca e cravatta azzurronera il suo delfino designato: Ernesto Stramaccioni Guevara. La Milano da bere, che tante volte è già andata bevuta, non può dare lezioni di niente, tantomeno di avanguardismo rivoluzionario. La patria dei campionati Tim vinti a tavolino e confezionati con l’INTERcettazioni di Calciopoli non può profumare di nuovo. Il sorriso di Moratti ha ancora bisogno di un buon semplice dentifricio. Già l’anno scorso la Roma aveva fatto di più scegliendo Vincenzo Montella che come allenatore aveva alle spalle soltanto un anno e mezzo di Giovanissimi. Adesso si critica la Roma di aver lasciato andare via Montella per aver scelto il futuro allenatore del Barcellona (A non B) e si beatifica l’Inter perché è arrivata al quinto tecnico cambiato dopo Mourinho. In tutto questo a Roma c’è ancora chi sceglie l’altra parte della storia, quella non ufficiale ma vera, quella fatta di padri e figli, di vento e non di sponsor, di mare e non di Pinetina. Si chiama Alberto De Rossi. E’ un signore e per questo non ha bisogno di nessun titolo: d’altronde basterebbe vedere la prole che ha lasciato al mondo per chiederne legittimamente la beatificazione.
Il Romanista – Tonino Cagnucci