Il Tempo (G.Giubilo) – Johan Cruyff, il «Pelé bianco», genio ribelle del calcio totale, si è spento ieri a 68 anni stroncato da un cancro ai polmoni. Da giocatore e da tecnico l’olandese ha fatto la storia del calcio. Con il «suo» Ajax ha vinto tre Coppe dei Campioni, due Supercoppe Uefa e otto campionati. Ha esordito in nazionale nel 1966 (48 presenze e 33 gol). Nel mondiale ’74 ha guidato gli Orange del calcio totale in finale prima di arrendersi 1-2 alla Germania Ovest. Tre volte vincitore del Pallone d’Oro, ha riportato il titolo al Barcellona dopo 14 anni di digiuno. Ha giocato anche in Usa. Da tecnico ha vinto quattro campionati e una Coppa delle Coppe col Barcellona e una Coppa dei Campioni. Messi, Pelé, Maradona, Totti e Beckenbauer: ieri tutti hanno lo hanno ricordato. Addio, profeta del gol. Un profeta, un rivoluzionario. In sintesi, Johan Cruyff. Ci ha lasciato ieri, vinto da un male che non perdona, nella sua amata Barcellona, il più grande calciatore europeo di tutti i tempi.
Avrebbe potuto contendergli questo primato, forse, il solo Alfredo Di Stefano, che però era nato in Argentina, prima di raccogliere gloria e trionfi nel Vecchio Continente. La prima testimonianza di uno spirito insofferente alla disciplina fu la scelta di quel numero sulla casacca dell’Ajax, il quattordici, quando le maglie venivano assegnate secondo i ruoli ricoperti, dall’uno all’undici, per indossare quel suo personale simbolo sulle spalle, ebbe bisogno di una speciale dispensa della Federazione. Aveva qualcosa di assolutamente unico: la capacità di intuire in anticipo le situazioni di gioco, così da rendere inarrestabile la sua velocità di esecuzione. Si sarebbe preso tutto, prima con l’Ajax che dettava legge in Coppa dei Campioni, poi in Catalogna, dove il Barcellona non vinceva da tempo, anche perché tutti i vantaggi se li prendeva il Real Madrid, caro al regime franchista. Cruyff, il ribelle, si innamorò subito dello spirito rivoluzionario della Catalogna. Con la maglia della Nazionale olandese avrebbe giocato il suo ultimo mondiale nel 1974, la finale persa contro i padroni di casa, dopo l’illusorio vantaggio del rigore di Neeskens. Quattro anni dopo, avrebbe rifiutato la convocazione per il Mundial argentino: non voleva avere nulla a che fare con Videla e i suoi generali assassini.
Ricordo con grande affetto una serata passata in sua compagnia a Rotterdam, alla vigilia di un confronto europeo. Di calcio parlammo pochissimo, lasciando spazio a letteratura, musica, attenzione agli aspetti sociali e ai problemi del mondo. Il giorno dopo, Fulvio Bernardini, nuovo tecnico azzurro, aveva destinato alla marcatura di Cruyff, presunta prima punta, il granata Zecchini, difensore puro, che non vide mai palla, perché il capitano olandese prese subito possesso del centrocampo, dirigendo le operazioni da maestro. Classe inarrivabile in campo, sarebbe stato un leader anche come allenatore. Con un solo incidente di percorso, la finale di Atene, persa per 4-0 contro il Milan di Fabio Capello, superficialmente snobbato nelle dichiarazioni della vigilia. Insofferente alle pressioni politiche, anche nella Spagna del regime. Suo figlio Jordy, attualmente dirigente sportivo, venne battezzato in Olanda, perché la Spagna ufficiale vietava quel nome, simbolo della Catalogna ribelle. Mai succube, mai allineato, ci ha lasciato troppo presto un fuoriclasse del calcio, ma anche un uomo capace di testimoniare la sua grandezza in tutti gli aspetti della vita. Ci mancherà il suo sorriso, che non esitava a regalare anche negli ultimi tempi, quando combatteva una battaglia che già sapeva perduta.