Giancarlo Abete si è dimesso da presidente della Federcalcio, sua sponte (era in carica dal 1° aprile 2007), il 24 giugno 2014, mezz’ora dopo la sconfitta con l’Uruguay e l’eliminazione dal Mondiale, insieme con Prandelli. Ha conservato l’incarico di vice-presidente Uefa (se si fosse dimesso, sarebbe stato sostituito da un non italiano) e quello nella Giunta Coni, privilegiando in questi otto mesi la linea della riservatezza e del silenzio. Ha nostalgia di quando era lei a guidare il calcio italiano? «No, la vita continua e ci sono altre attività da seguire. D’altronde nel 2013 avevo già annunciato che non mi sarei ripresentato alla fine del quadriennio. L’Italia aveva giocato un grande Europeo, arrivando seconda e una buona Confederations Cup nel 2013, conclusa al terzo posto. Ma il Mondiale è andato male e ne sono state date tante letture; quando le cose non girano nella manifestazione più importante è giusto pagare pegno e l’ho fatto. Mi spiace aver lasciato tante persone di qualità che hanno lavorato con me, ma è stato meglio così, anche per non esporre la federazione a continui attacchi». È vero che fare il presidente della Figc è il peggior incarico che si possa immaginare? «Non è così. Il punto centrale è la necessità di fare sintesi in Consiglio fra venti persone che rappresentano sette componenti e che hanno esigenze molto diverse fra di loro. Cercare una mediazione non è mai stato facile e lo è diventato sempre meno. Da fuori si pensa che il presidente sia il dominus, ma non è così». I nuovi dirigenti insistono sulla necessità di ridurre le spese: ciò significa che ai suoi tempi si spendeva troppo? «Lo escludo. Il problema è che sono calati i proventi del Coni, che già si erano ridotti quando io ero il presidente, passando da 80 a 62 milioni. Grazie al lavoro di chi era con me, a cominciare dal dottor Valentini, che ha gestito la federazione con grande capacità, abbiamo lasciato i conti a posto e un’istituzione viva e vitale. Poi sono il primo a sapere che tutto è migliorabile». Un caso come quello del Parma non si era mai visto. Molti pensano che la situazione sia precipitata, perché c’è stato un colpevole lassismo istituzionale, anche ai suoi tempi. Idea sbagliata? «Bisogna fare una distinzione chiara. Ci sono le norme e ci sono i controlli. Qualsiasi modifica delle norme interne federali, per l’iscrizione ai campionati, viene discussa in Consiglio federale, con possibili modifiche anno per anno, ma ratificata dalla Giunta Coni, come previsto dallo Statuto, dopo aver acquisito il parere della Covisp, organo tecnico del Coni. L’organo di controllo federale, in questo caso la Covisoc, si muove ai fini del parere positivo all’iscrizione ai campionati sulla base delle normative vigenti in totale autonomia, senza alcun ruolo previsto per il Consiglio federale che interviene solo in presenza di pareri negativi. Del resto a maggio la commissione licenze di primo e secondo grado presso la Figc — su denuncia della Covisoc — aveva certificato il ritardato pagamento di 300 mila euro di alcune ritenute e non aveva dato il via libera all’iscrizione del Parma all’Europa League. È stato un campanello d’allarme. Se la Covisoc avesse scritto nella relazione che il Parma non andava iscritto, il Consiglio federale, che ha sempre rispettato il lavoro della Covisoc, ne avrebbe preso atto. Ma sono convinto che i controlli della Covisoc siano stati rispettosi della normativa vigente. Poi si può dire che le norme dovrebbero essere più incisive e più rigorose, ma è un’altra questione». Perché il Parma si è ridotto in queste condizioni? «Il problema in questo momento non è soltanto la massa debitoria, perché ci sono club in cui è anche superiore, ma i flussi di cassa inesistenti che hanno portato alla totale assenza di risorse. Speriamo che venga trovata una soluzione; va fatto l’impossibile, con ogni sforzo, per far proseguire il Parma in questo campionato, sia per garantire una conclusione naturale della stagione sia per non avere un ulteriore danno d’immagine a livello internazionale». Già nel 2010 aveva segnalato i problemi legati al fatto che i giocatori stranieri rappresentano la maggioranza nelle squadre italiane. La situazione è peggiorata… «Preferirei parlare di giocatori non selezionabili per la nazionale italiana, per evitare equivoci. Il trend si è consolidato, ma vanno rispettate la volontà e gli interessi di chi guida i club, che sono società per azioni. I problemi per le nazionali ci sono, non solo in Italia». Da anni si insiste sulla necessità di riportare la serie A a 18 squadre e non si fa mai niente. Un giorno o l’altro si riuscirà nell’impresa? «Ridurre il numero dei club vorrebbe dire creare le condizioni per essere più competitivi a livello internazionale con la Nazionale. Ma sarebbe sbagliato pensare che la A a 18 sia la panacea di tutti i mali. Non esiste un rapporto di automatismo fra le due cose. Premier League e Liga sono a 20 squadre; la Bundesliga a 18. Si può essere competitivi anche percorrendo strade differenti». La Lega Pro, che ai suoi tempi era stata anche un modello organizzativo, è lacerata da una vera guerra. Che effetto le fa questo spettacolo? «Sono molto dispiaciuto, anche per il rapporto che ho sempre avuto con Macalli, Gravina e Ghirelli. Mi auguro che questa situazione venga superata in fretta. Ma spero soprattutto che il calcio riesca a ritrovare unità. Già in tempi normali servirebbe questo sforzo; a maggior ragione, in momenti difficili come questi. Capire tutti insieme qual è il proprio ruolo e lavorare per recuperare il senso dell’istituzione».
Corriere della Sera – M. Monti